Io non piango. Ho smesso quel giorno che sono caduta in mare e mi hanno tirato su viva e mi chiedo ancora com’è. Non piango più: le lacrime mi strozzavano il cuore ancora più forte del mare salato. Io non piango neanche la mattina alle tre in pieno luglio che fa freddo e non c’è luce e mi si vede appena, non sono bianca come la luna. Sono una negra, come dite voi con le vostre bocche piene di parole sbagliate. Avevo un altro nome che le vostre bocche sbagliate non sanno dire, e ora per tutti mi chiamo Teré. Ho un’età che non sembra, meno di venti, ma paio una vecchia. Il mio corpo spezzato in due pezzi, piegato per dodici ore: la pelle stuprata dal sole, le labbra grattate, le mani a misura di un pomodoro. «Teré!» mi urlano forte quando è ora di smettere e allora mi carico l’ultima cassetta di pomodori in testa, come facevano mia mamma e mia nonna prima del mare e dei pomodori. Io non piango, ho smesso perché piangere costa fatica e dolore e fa venire più sete. Io non ho fatica, dolore e soprattutto acqua da sprecare. Trattengo le misere forze dei miei neanche vent’anni, trattengo le lacrime che ho lasciato annegare nel mare e non piango più. Lavoro, lavoro e lavoro: «Teré per oggi hai finito, sciamu a casa Teré». E a casa, una specie di stanza in cui stiamo in sette, c’è la tv. E una donna vestita di nuovo sta piangendo, dice che ero invisibile ma ora mi vede. Mi vedi Teresa? Davvero mi vedi? Hai presente anche il mare, la pelle stuprata, le tre di mattina? E allora guardami, ma guardami bene, perché io non piango, ho smesso quel giorno in cui mi hanno dato nome «Teré».
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